“CAMPOFELICE DI FITALIA TRA STORIA E TRADIZIONE” ISPE-Archimede editore, Palermo, 2007 Presentazione:

LE RADICI RITROVATE

di Giuseppe Oddo
Inviato a compiere un’ispezione amministrativa nella Contea di Modica (da poco incamerata al Fisco), il consigliere borbonico Donato Tommasi, conservadore generale di Azienda, partì da Palermo in calesse alcune ore prima dell’alba del 13 maggio 1808. Preceduto e scortato da un buon numero di cavalleggeri, il nostro era accompagnato dell’economista agrario Paolo Balsamo che, da convinto assertore delle teorie dell’inglese Arthur Joung, non si lasciò sfuggire l’occasione per stendere un giornale di viaggio volto a far conoscere i progressi conseguiti negli ultimi anni dall’agricoltura isolana, grazie all’introduzione, per il suo tramite, di nuove tecniche agronomiche sperimentate con successo in Inghilterra e in altre realtà del Vecchio Continente. Arrivati alla Pianotta di Vicari – racconterà l’anno dopo – «vedemmo da quelle parti la Gasena, che si appartiene al Signor Barone Vincenzio Palmeri, ottimo Agricoltore, onestissimo gentiluomo e mio pregiatissimo amico. Il tempo, secondo il proverbio, è un gran galantuomo; e quando esso avrà vinto le aspre difficoltà, che sempre si parano all’introduzione delle utili novità, quando avrà dissipato il prestigio delle vecchie costumanze, ed avrà fatto conoscere ed apprezzare l’importanza delle mie lezioni di rusticale Economia, si ricorderanno i Siciliani con gratitudine, e rispetto, che questo fu quel podere dove si sperimentarono per la prima volta in grande gli stromenti agrarj da me recati da Inghilterra, e si fecero i primi prati artificiali, e le prime stalle si edificarono a regola d’arte pel mantenimento, e governo dei Bestiami bovini». Non tutti i feudatari allora si mostravano però così aperti alle innovazioni; ed erano ancora di meno i proprietari disposti ad investire proprie risorse nello sviluppo dell’agricoltura. Una realtà, questa, che Balsamo avrà modo di rilevare subito dopo aver fornito i dati relativi all’azienda del barone Palmeri. «A S. Giuseppe presso il Ponte di Vicari – scriverà – ci arrestammo per far colazione, e dar biada ai cavalli […]. L’Osteria di S. Giuseppe è spaziosa per l’alloggio delle bestie, ma angusta, ed estremamente sconcia per quello degli uomini. Non essendoci pertanto ita a sangue, in un prato, all’ombra di una vicina cappella, e seduti sopra due annose e traballanti sedie, mangiammo certe semplici vivande, che belle e preparate avevamo noi stessi recate da casa». I nostri si erano appena rifocillati, quando furono sorpresi piacevolmente da una visita di don Girolamo Settimo Calvello e Naselli (investito del titolo di secondo principe di Fitalia il 3 ottobre 1785). «Festeggiammo il suo arrivo – sono ancora parole di Paolo Balsamo –, e bevemmo alla sua salute due bicchierini di amabile Bordeaux; dicemmo varie piacevolezze; e da ultimo si fece parola di alcune riforme, e miglioramenti, che egli pensava di ridurre ad effetto nell’amministrazione e coltivazione di quella sua vasta, e ricca possessione, di circa duemila salme di Palermo, che era meno d’un miglio lontana. Il Signor Conservadore approvò sommamente cotali suoi lodevolissimi proponimenti; ma io non contento di solamente commentarli, mi presi la libertà di dirgli che i medesimi non avrebbero avuto giammai il desiderato compimento, sin tanto che non si risolvesse di trottar meno in splendide carrozze, e livree nella Marina, e in Toledo, e a cavalcare più frequentemente in comode selle, e piani farsetti per quelle apriche, e deliziosissime piagge». Le osservazioni dell’insigne economista agrario non erano certo peregrine: come moltissimi altri esponenti dell’alta aristocrazia terriera, don Girolamo Settimo sperperava il reddito prodotto a Fitalia fra gli agi della Capitale, lasciando il feudo in balia di grossi affittuari (gabelloti) che facevano il bello e il cattivo tempo, sfruttando i contadini coltivatori (borgesi), «la classe più operosa dei cittadini, ma la più oppressa e tirannizzata dai principali fittuari», aveva scritto lo stesso Balsamo nel 1792. «È vero che di solito si dà loro la semenza, e non di rado qualche soccorso in denaro, anzi qualche volta loro si maggesano e persino si seminano le terre. Ma se si dà uno ad un inquilino, questa liberalità non ha altro oggetto che togliergli due al raccolto… Altrochè sono essi obbligati a restituire con usura le prestate sementi spesso di cattiva qualità, e co’ più scelti sementi; altrochè si fanno loro pagare ad un eccessivo prezzo i maggesi, d’ordinario mal fatti; si affittano loro le terre ad un prezzo esorbitante che è quasi impossibile potervi guadagnare». Un borgese, al quale Balsamo aveva chiesto nel ‘92 per quale motivo coltivasse la terra «sulla sicurezza di dover perdere», non aveva esitato a rispondergli: «Perché… non sappiamo né possiamo far altro, e meglio è viver miseramente che morir di fame». Ma da dove venivano, prima della fondazione di Campofelice di Fitalia, i contadini che coltivavano le terre dei signori Settimo? La maggior parte da Mezzojuso: parola di Ignazio Gattuso e di Domenico Gambino. Ma anche da più lontano. È il caso dei villafratesi Vittoriano Spitaleri e Francesco Oddo che nel 1759 coltivavano insieme cinque salme di terra a terraggio, appunto, a Fitalia. A concedergliele era stato direttamente il padrone dell’epoca? Nemmeno per idea. Nel feudo gli aristocratici nostri capitavano di rado e solo per andare a caccia. Ad occuparsi della messa a coltura delle loro terre erano i gabelloti che pagavano il canone in anticipo, e in moneta sonante. Appare dunque strana la presenza, il 13 maggio 1808, del principe nel feudo. A ben riflettere, però, la stranezza è solo apparente. Tutto lascia pensare che l’incontro fra don Girolamo Settimo e il consigliere Tommasi non fu poi così casuale come vuol far credere Paolo Balsamo, se è vero che dopo il brindisi e lo scambio di varie battute amene, «si fece parola di alcune riforme e miglioramenti, che egli pensava di ridurre ad effetto nell’amministrazione e coltivazione di quella sua vasta, e ricca possessione». Per dirla tutta, forse l’eccellentissimo principe sapeva che l’autorevole funzionario borbonico (tenuto in somma considerazione dal Sovrano) quel giorno sarebbe passato dalla Pianotta di Vicari e avrebbe fatto sosta nel fondaco di San Giuseppe. Voleva perciò incontrarlo per raccomandargli una pratica cui teneva molto e che intendeva sottoporre presto all’attenzione del Re Nasone, Ferdinando di Borbone (IV di Napoli e III di Sicilia). In buona sostanza, don Girolamo era intenzionato a far valere una vecchia licentia habitandi territorium (di cui non si era completato l’iter procedurale per la morte del concessionario), rilasciata al suo antenato barone Michele Settimo Naselli, il 18 gennaio 1594, dal vicerè Conte d’Olivares, con riserva dell’approvazione del Sovrano entro due anni. Per assurda che potesse sembrare la richiesta, il 1° settembre 1810 Ferdinando III autorizzò il secondo principe di Fitalia a costruire un nuovo villaggio nel feudo di cui era signore e a popolarlo con coloni di diversa provenienza, disposti a trasferirvisi. Le ragioni della particolare condiscendenza del Sovrano sono molteplici, non ultima delle quali l’incremento della cerealicoltura in un pezzo di Sicilia particolarmente vocato a tale funzione, ma ancora parzialmente da dissodare. Non si dimentichi poi che quel territorio, ultimo avamposto della comarca di Termini, al confine con le comarche di Corleone e Castronovo, era un nodo viario di straordinaria importanza ma, purtroppo, infestato da malfattori che razziavano il bestiame transumante da secoli stagionalmente da Mistretta, sui Nebrodi, alle valli dei Monti Sicani. La presenza stabile dei coloni avrebbe reso meno pericoloso il periodico attraversamento delle mandre. Ora, la storia della fondazione di Campofelice di Fitalia è stata già raccontata in modo particolareggiato da Domenico Gambino, richiamando peraltro gli elaborati di studiosi dallo spessore culturale di Salvatore Raccuglia ed Ignazio Gattuso. In questa sede l’Autore si limita a ricordare che la prima pietra del nuovo villaggio fu posta nel 1811. Non manca però di sottolineare (confortato da documentazione notarile rinvenuta nei pubblici archivi) che il vero regista della fatidica operazione non fu il principe, ma il suo gabelloto, il mistrettese don Vicenzo Di Salvo che, «in qualità di delegato di Sua Eccellenza Girolamo Settimo principe di Fitalia, regolarizzava le concessioni enfiteutiche di case e terreni consegnati “verbalmente” nel 1814 a numerosi assegnatari». Assegnatari di cui Gambino riporta scrupolosamente i nomi e i paesi di provenienza. Di alcuni di loro ricostruisce i processi di mobilità sociale. Dell’intera comunità racconta le principali vicissitudini e le vicende demografiche, insomma le storie silenziose e quasi dimenticate, «il cui rumore» amava dire Fernand Braudel «fu immenso e l’eco appena percepibile». Ecco, sta proprio qui, nella ricostruzione della «vita passata della gente di Campofelice di Fitalia con l’intento di riscoprire gli usi, i costumi, i giochi, la religiosità e le leggende», nello sforzo di «valorizzare il vissuto popolare con riferimento ai fatti storici, linguistici e culturali», l’originalità vera del nuovo lavoro dell’architetto Domenico Gambino, già autore di due saggi storici sul proprio paese e realizzatore, nel 1984, dello stemma e del gonfalone del comune. Abituato a ricercare con pazienza certosina i cocci di una cultura in frantumi, con questo nuovo lavoro l’Autore si colloca (indipendentemente dalle intenzioni) nel filone dei cultori di quella storia nuova che si sensibilizza all’antropologia: una storia che, volendo dirla con Jacques Le Goff, «cerca di conservare la lezione della lunga durata, rivalutando però l’avvenimento». La narrazione prende le mosse dalla formazione della piccola comunità locale per tratteggiarne gli stili di vita, la cultura, materiale e spirituale, i segni della presenza umana sedimentati nel centro urbano e nel territorio circostante. I riti di passaggio (dalla culla alla bara), le feste religiose, la devozione popolare, i giochi fanciulleschi, le filastrocche in cui un tempo si producevano i bambini costretti a giocare in piazza e nelle strade (polverose d’estate e fangose nella brutta stagione) sono le tappe successive di un racconto affascinante di chi ha saputo attingere allo scrigno del proprio vissuto e a quelle biblioteche ambulanti che sono gli anziani del paese. La stessa ricostruzione dell’albero genealogico di cui è autorevole rampollo il celebre presentatore televisivo, Mike Bongiorno, è segno di un rinnovato interesse per la discoperta delle radici di una comunità operosa e creativa, apprezzata anche oltreoceano. Le leggende plutoniche legate a Pizzo Marabito testimoniano come in quella sfortunata plaga di Sicilia il mito continua a rincorrere la storia e viceversa. Il recupero delle tradizioni dimenticate la dice lunga sulla concezione del mondo e della vita di una piccola comunità, illetterata e superstiziosa, che ha saputo attrezzarsi, direbbe Ernesto De Martino, «per affrontare in regime protetto la potenza del negativo nella storia». Per portare un solo esempio, Gambino si chiede come mai a Campofelice, dove San Giuseppe è il patrono del paese, la sera del 18 marzo non venivano accesi (se non occasionalmente) i falò, come nei comuni vicini, ed era invece molto sentita la tradizione della vampa ri sant’Antoni, che la sera del 16 gennaio illuminava a giorno il paese e le contrade circostanti. Attorno al rogo era «un continuo susseguirsi di grida e di esclamazioni e tutto ciò fino all’estinzione delle fiamme; seguiva subito dopo la ressa delle persone che si contendevano il carbone ardente e la raccolta delle ceneri alle quali venivano attribuite proprietà taumaturgiche in caso di malattie delle bestie». A mio avviso, la particolare devozione al “Santo del fuoco” affonda le radici nella straordinaria importanza che gli animali domestici, e segnatamente le bestie da soma, assumevano nelle strategie di sopravvivenza della popolazione locale. Non a caso il 17 gennaio, giorno della festa del Santo, «al termine della Santa Messa solenne, davanti alla chiesa vi era il raduno dei campagnoli ciascuno con i propri animali (cavalli, muli, pecore, capre, mucche…) ai quali il sacerdote impartiva la benedizione. Per gli animali da soma, se questi erano addugghiati, cioè soffrivano di mal di ventre o di dolore colico, si praticava un rito particolare: quello di far percorrere all’animale per tre volte consecutive la strada attorno all’isolato della chiesa». Non è poi da escludere che, nell’immaginario collettivo dei Campofelicesi, Sant’Antonio Abate proteggesse anche dal pericolo dell’abigeato. Un’ipotesi, questa, che rimanda chiaramente alle ragioni della fondazione del villaggio. Alla distanza di quasi due secoli da quell’avvenimento c’è da chiedersi sino a quel punto ci abbiano guadagnato i coloni che raccolsero l’invito del principe, allettati dal miraggio della terra e di un tetto sotto il quale ripararsi. È vero, i pionieri della colonizzazione beneficiarono dell’assegnazione di una casetta di circa 35 mq e di poco più di due ettari di terra, dietro la corresponsione di un canone annuo pari al cinque per cento sul valore di stima dei fabbricati e di sei onze per i terreni; inoltre, «per quattro anni, incominciando dal mese di settembre 1814 in poi franchi, e senza pagare censo annuale, e da settembre 1818 in poi coll’obbligo di pagare il rispettivo canone nonché la contribuzione fondiaria dovuta sugli stessi beni». Rimane però il fatto che, pochi anni dopo la fondazione del villaggio, la stragrande maggioranza degli enfiteuti si ritrovò senza terra e senza casa e, per di più, indebitata con gli usurai. Crebbe così a dismisura l’armata degli zappaterra che andavano a lavorare a giornata per estinguere i debiti contratti per alimentare la famiglia. «Fortunato – nota opportunamente Gambino – poteva sentirsi chi veniva assunto per un anno oppure per una stagione (adduvatu) presso le masserie dove viveva giorno e notte per accudire gli animali (vacche e pecore) e così poteva sfamare se stesso e la famiglia. Alle donne era affidato il compito di spigolare (iri a cogghiri spichi) e cioè raccogliere quelle poche spighe sfuggite al mietitore per ricavare, infine, un po’ di farina per il pane». Né ebbe destino migliore la mastranza, che continuò a pencolare tra il lavoro artigianale e quello agricolo. Senza considerare che, per sbarcare il lunario, i falegnami (mastri d’ascia) costruivano anche casse da morto e, all’occorrenza, s’improvvisavano bottai, giravano le masserie per riparare botti e tini. Oltre a realizzare arnesi per il lavoro agricolo e mettere i ferri agli equini, i fabbriferrai «praticavano mansioni simili a quelli di un veterinario diagnosticando le malattie degli animali da soma, indicandone i rimedi, curandoli o intervenendo con operazioni chirurgiche. Essi curavano il tetano, la meningite e la tendinite; con le tenaglie estraevano i denti che impedivano all’animale la corretta masticazione; con un apposito attrezzo di ferro rovente, con il manico di legno, toglievano la cosiddetta “fava”, un’escrescenza della bocca che, anche in questo caso, dava fastidio alla masticazione. Alcuni fabbriferrai, inoltre, sapevano “sanari” ovvero castrare muli e cavalli […] praticare le iniezioni […]. Altra competenza era quella di marcari, cioè apporre un marchio agli animali, il cosiddetto mercu, che veniva impresso sulla carne viva e riportava le iniziali del proprietario come segno di riconoscimento». E i barbieri? Se i firrara praticavano la veterinaria, i monsù esercitavano l’arte di Ippocrate. Fungevano insomma da medici empirici, o per dirla con il linguaggio dei contadini, da merici sarvaggi: «si dedicavano ordinariamente all’estrazione dei denti adoperando anche strumenti da odontoiatra […]. La gente si rivolgeva ai barbieri anche per i disturbi alla pressione arteriosa e nei casi di bronchite e polmonite. Il rimedio era quello d’applicare sulle spalle dell’ammalato da quattro a sei sanguisughe che succhiavano il sangue; queste erano tenute in un recipiente con acqua e si nutrivano proprio del sangue succhiato ai malati». Come molti altri artigiani, anche i barbieri facevano servizio a domicilio; anzi, andavano a trovare i clienti abbonati (firati) perfino nelle masserie. Le loro prestazioni erano retribuite in natura, a fine agosto. Ad animare periodicamente la scena della Campofelice del passato erano anche i mietitori della cosiddetta marina: «squadre di braccianti provenienti dalla Sicilia orientale, dove la mietitura si concludeva alcuni giorni prima. Mietitori arrivavano anche da San Biagio Platani e dai vicini centri, specialmente: Altavilla Milicia, Casteldaccia, Misilmeri, Bolognetta, Marineo e Belmonte Mezzagno. Povera gente che giungeva nel nostro paese per lavorare e che, appena arrivata, era costretta a trascorrere la notte sotto le stelle, davanti alla chiesa e dinanzi le case della cosiddetta panchina della piazza centrale, nell’attesa di essere assunti ed avere, oltre alla misera paga giornaliera, un pezzo di pane, il companatico, un bicchiere di vino e un cantuccio per dormire in un pagliaio o in una pagliera». Tutto questo succedeva ai tempi in cui nel buio fitto delle notti illuni s’intravedeva il rassicurante luccichio r’i cannolicchi r’u picuraru, delle lucciole, che erano numerose in quella terra di rapina, che è stata sempre l’ex feudo Fitalia. Poi, negli anni sessanta, i benemeriti insetti cominciarono a scomparire anche nelle campagne di Campofelice di Fitalia per ceder il posto ai riatteri di città, spregiudicati mercanti d’antiquariato che, al grido di «Cu avi cosi vecchi, ca ci canciu», incettavano senza ritegno «antichi lumi, bracieri, ferri da stiro a carbone ed altra oggettistica che le donne cedevano volentieri in cambio di qualche… moderno… fiore di plastica!». Si svendevano così anche i segni della civiltà contadina, di un modello di società che non è certo da rimpiangere (a giudicare dal prezzo salato pagato dalla stragrande maggioranza delle popolazioni rurali di Sicilia), ma che resta pur sempre fonte di valori autentici da investire nella progettazione di un futuro a misura dell’uomo. Animato dal proposito di recuperare la storia e la cultura del villaggio natio, giusto nel momento in cui la globalizzazione selvaggia sta facendo terra bruciata di qualsiasi identità “diversa” da quella dominante, Domenico Gambino ha reso, insomma, un grosso servizio a quanti si rifiutano d’accettare supinamente l’appiattimento culturale proposto, con una perseveranza degna di miglior causa, dai persuasori occulti foraggiati dai potenti del mondo. Non ci resta perciò che ringraziarlo di essersi sobbarcato a questa nuova faticata e di augurargli che il presente saggio possa esser preso a modello, come merita, da tanti altri studiosi intenzionati a scoprire il mondo con la mente e i piedi piantati nel luogo dove hanno visto sorgere e tramontare per la prima volta il sole.