IL GRANO: DALLA SEMINA AL PANE

di Domenico Gambino

L’aratura
Era la prima operazione del ciclo produttivo del grano, aveva inizio con la fine dell’estate e si svolgeva in tre tempi. Un lavoro duro e faticoso, tanto più quando le piogge tardavano ad arrivare e la terra era rassodata per il caldo estivo. L’aratura era compiuta con aratri di legno o di ferro, trainati dagli animali o con, ancor più con grande dispendio di energie, se era compiuta a mano. Molti terreni, inoltre, erano cosparsi di pietre e già in estate si procedeva all’operazione di spietratura (spitrari). Nel mese di ottobre, pertanto, aveva inizia l’aratura per rompere la crosta del terreno. Lavoro che veniva ripetuto una decina di giorni dopo e tale operazione detta rifunniri consisteva nel ripassare il terreno in senso perpendicolare al primo solco in modo da formare un reticolo che assicurava l’estirpazione delle erbe infestanti che nel frattempo erano cresciute. A novembre seguiva la terza aratura (ritrizzari) necessaria per la creazione di solchi sul terreno disposti a ricevere le sementi. Strumento antichissimo e che rimase in uso fino agli anni Cinquanta del passato secolo è l’aratro di legno a chiodo, detto aratu a chiovu o a dui perché tirato da una coppia di buoi o di muli con il contadino alla guida. Questo aratro era caratterizzato da alcuni accessori necessari per appaiare gli animali: il giogo (jovu) costituito da una barra di legno le cui estremità arcuate poggiavano su appositi basti che impedivano agli animali di farsi male; la percia, una stanga di legno che serviva da unione per attaccare l’aratro al giogo. Negli anni Trenta cominciò a diffondersi l’aratro a forbice o meglio conosciuto come aratu a fòrbici o a scocca che, come il precedente, aveva il vomere di ferro, ma fu scarsamente usato dai nostri contadini anche perché dopo qualche decennio venne superato da quello di ferro che a seconda della forma del vomere era detto a canali o a pipa e a virsura. La novità dell’aratro a scocca consisteva nel fatto che veniva trainato da una sola bestia, a vestia. Anche l’aratro di ferro, naturalmente, poteva essere trainato da una sola bestia e introduceva come accessorio il bilancino o valanzolu e il doppio bilancino che dava la possibilità di appaiare due bestie quando alla prima aratura la crosta del terreno si presentava compatta. L’invenzione degli aratri tirati da un solo animale fu comunque in fatto rilevante perché offriva il grande vantaggio a quei contadini che possedevano un solo animale e che erano obbligati ad associarsi tra loro per arare vicendevolmente le terre. L’aratura con l’ausilio degli animali, naturalmente, oggi non è più praticata, ma il passaggio ai mezzi meccanici avvenne gradualmente.


La semina
La semina del grano si effettuava normalmente a novembre, mese in cui il terreno aveva già accumulato una notevole riserva d’acqua. Essa prevedeva la selezione delle sementi che consisteva nello scegliere le migliori. Queste sementi ammannati erano ricavate dopo la ripulitura dei semi estranei e provenivano dalle spighe più rigogliose. Tale compito era demandato ad un esperto cernitore, u mastru cirnituri, che veniva remunerato in natura in base alla quantità di tumoli setacciati. Le varietà di grano che più si seminavano tra quelle ritenute di buona qualità erano: cicireddu, realforte, bilì, paola, castiglione, tallarò, e garigliano, tutti grani duri. Diffusa era la coltivazione del maiorca, una qualità di grano tenero la cui farina era utilizzata per dolci e il tumminia che per la sua crescita veloce si poteva seminare fino a marzo quando per le abbondanti piogge si era costretti ad interrompere la semina. Metodo per seminare il grano era a spaglio (a spàgghiu): il contadino seminatore seguendo la brocia, lo spazio fra solco e solco della distanza di quattro o cinque metri precedentemente tracciato con l’aratro, procedeva a passi cadenzati, estraeva i semi dalla coffa con la mano destra e con abilità li spargeva facendoli cadere sul terreno in modo uniforme. L’operazione terminava quando l’aratro ripassava per rivoltare il terreno e coprire i semi. Pochi erano i contadini che seminavano a riga (a ria o a surcu), cioè lasciando cadere i semi lungo il solco perché ritenuto più adatto per le fave. Questo metodo più complicato, tuttavia, permetteva di effettuare la copertura delle sementi con l’erpice (èrfici) che passando sul terreno spianava la terra. Negli anni Trenta del Novecento questo sistema veniva raccomandato dagli esperti di granicoltura non solo per una buona semina ma anche perché, successivamente, semplificava l’operazione di pulitura dalle piante spurie del seminato. La germinazione del seme (lavuri) e le prime fasi di crescita venivano seguite con attenzione dal contadino che a tempo opportuno interveniva con le operazioni di erpicatura e scerbatura, necessarie per estirpare le cattive erbe che crescevano in abbondanza nel seminato portando via nutrimento alla coltivazione. Per la prima si adoperava l’erpice nelle sue molteplici varianti, mentre la seconda, zzappuliari, veniva fatta con la zzappudda, ovvero una zappa con lama di ferro di forma ristretta e di dimensione più piccola ma, nei mesi di aprile e maggio quando le messi si facevano alte e cominciavano a biondeggiare, il contadino interveniva direttamente con le mani.


La mietitura
Coincide con l’arrivo dell’estate che le messi (lavuri) biondeggiano e il grano (furmentu) arriva a maturazione. Quando nei tempi passati a giugno giungeva il momento di iniziare la mietitura (mètiri), tranne che non si fosse seminata tumminia che andava mietuta a luglio. Le operazioni della mietitura nelle piccole tenute erano compiute dallo stesso coltivatore che si avvaleva dell’aiuto dei familiari. Molto complesse erano invece nelle grandi tenute dove i possidenti assumevano squadre di braccianti, dette opra r’omini o chiurma, formata da sei ad otto mietitori (mititura), tra i quali vi era un legatore (liaturi). Ad ognuno venivano affidati compiti precisi. Il mietitore più esperto con la falce (fauci) si posizionava nella parte estrema, a capu, ovvero a capofila (spata), in modo da poter controllare e comandare il ritmo del lavoro. Il liaturi aveva il compito di raccogliere a gruppi di dieci i mazzetti di spighe (èrmiti) e formare i covoni (gregni) che legava con l’ampelodesmo (liama); lavoro che veniva effettuato con un uncino di ferro (ancinu) ed una forcina di legno (ancineddu). A compiere questi lavori erano uomini preparati che conoscevano i pericoli derivanti dai gesti che dovevano compiere con rapidità e per questo ogni mietitore indossava un pettorale di olona (pitturali), un manicotto (vrazzali) anch’esso di olona al braccio destro e proteggeva le dita (mignolo e anulare e talvolta il medio) della mano sinistra con ditali di canna (canneddi o itala). Metteva, poi, un ampio cappello per ripararsi dal sole rovente; sulla nuca e sulle orecchie pendeva un caratteristico fazzoletto, con motivi decorativi di colore bianco su sfondo azzurro, verde e rosso, che serviva per difendersi dai fastidiosi moscerini (zzappagghiuna) che nelle ore più calde infestavano l’aria. La giornata di lavoro di questi braccianti iniziava all’alba e terminava al tramonto (ri stidda a stidda); mangiavano solitamente cinque volte al giorno: imboccavano qualcosa di prima mattina (pigghiari l’agghiu); due bocconi nella mattinata (pigghiari un muzzicuni); poi a pranzo (pranzu); nel pomeriggio la merenda (s’ammirinnaia) e infine a cena quando finalmente potevano mangiare con un piatto di minestra. Di tanto in tanto, sospendevano il lavoro per prendere la brocca (u bummaru) d’acqua e dissetarsi. Era consuetudine pregare e ringraziare il signore: la mattina, dopo il pasto di mezzogiorno e al termine della giornata lavorativa. Questa abitudine, quando si era in gruppo, trascinava l’opra r’omini e allora, all’osanna del liaturi: ludamu e ringraziamu lu Santissimu e Divinissimu Sacramentu! I mietitori in coro replicavano: Ora e sempri sia ludatu! Le lodi si ripetevano tre volte e per tre volte si alzavano le braccia verso il cielo con il mazzo di spighe e l’arnese del lavoro nelle mani.


Il trasporto dei covoni all’aia
Terminata la mietitura, i covoni di spighe sparsi sul terreno, si raccoglievano in cataste e si lasciavano essiccare sotto il sole battente. Si iniziava, quindi, a stràuliari, ovvero a trasportare i covoni, con le stràgule o a dorso dei muli, al posto d’aria, cioè nell’aia, dove avveniva la trebbiatura o battitura (a pisatura). Le cataste dei covoni di grano non erano formate a caso. La quantità dei fasci che formavano i mucchi dipendeva dalle dimensioni della stràgula, cioè da quel mezzo di trasporto in legno, molto antico, costituito da una specie di slitta che poteva percorrere anche terreni accidentati. La stràgula era trascinata generalmente da buoi e, appunto, serviva per il trasporto dei covoni nell’aia. Solitamente, una catasta era formata da 20 covoni che costituivano un mazzu. Il termine stràguliari o stràuliari, che indicava l’operazione di trasporto con le stràgule, era usato anche quando ciò avveniva a dorso degli animali da soma. In questo caso cambiava la dimensione delle cataste. I covoni, infatti, si raccoglievano in mucchi da 6 formando la cosiddetta cavaddata che corrispondeva al carico di un mulo. Ragioni di convenienza suggerivano ai contadini di trasportare i covoni nelle ore mattutine, al tramonto o al chiaror della luna, non solo per sfuggire all’afa estiva, ma anche per scongiurare la possibilità che con il sole cocente le spighe potessero sgranocchiare. Per l’ansia di un improvviso temporale e per la volontà di giungere presto alla battitura, invece, continuavano il trasporto anche durante le ore più calde del giorno. Era un continuo andare e venire di uomini e muli dai campi all’aia. Dei dorati campi di grano, sul terreno, rimanevano soltanto i ristoppi (rristuccia) che venivano ceduti ai pastori per il pascolo, in cambio di formaggi o agnelli. Le poche spighe che inevitabilmente sfuggivano al legatore, venivano raccolte dalle spigolatrici, donne di famiglie indigenti che le raccoglievano, una per una, per ricavarne, infine, un po’ di pane. Giungeva, infine, il momento di bruciare i ristoppi (abbruscari) le cui ceneri avrebbero contribuito a produrre l’azoto e a dare nuova linfa al terreno.


La battitura
Trasportati i gregni al posto d’aria, questi venivano slegati (sciogliri l’aria) e si sparpagliavano nello spazio delimitato per essere trebbiati, ovvero pisati. L’aria occupava uno spazio circolare, con il raggio di quattro o cinque metri, pianeggiante ed esposto al vento; poteva trovarsi nelle stessa proprietà terriera o altrove. I feudi o i latifondi erano sempre dotati di proprie aie in uso comune ai contadini che vi trasportavano i covoni provenienti dalle tenute concesse con i soliti patti agrari. L’operazione della battitura aveva inizio nella tarda mattinata, ovvero quando il sole era già alto e le spighe ben essiccate si sgranocchiassero facilmente. Anche questa fatica, quindi, doveva compiersi allo scattiu ru cauru, espressione che indica le ore più calde della giornata. Il contadino di turno, portante (caccianti o pisaturi), si metteva al centro dell’aia e, tenendo fermamente in mano le redini di uno o due bestie appaiate, dava avvio alla cosiddetta cacciata, e spingeva gli animali a trottare in circolo invocando i santi del Paradiso con una cantilena e con una sequenza di versi scaturiti dalla sua fantasia. La cacciata durava oltre un’ora e al termine si facevano uscire le bestie che così riposavano, mangiavano e si dissetavano, mentre altri contadini rivoltavano le spighe. Si dava, quindi, avvio ad un’altra battitura con le solite frasi d’incitamento agli animali; la successione dei caroselli si concludeva quando il grano, finalmente, fuoriusciva dal guscio delle spighe. La conclusione della battitura era contrassegnata da una pausa per prendere un boccone e dissetarsi. Un venticello continuo, meglio se soffiava da tramontana, era indispensabile per dare avvio alla fase successiva, quella di spagliare (spagghiari). I contadini con il tridente (trarenta) lanciavano in aria e controvento il materiale sminuzzato affinché il vento separasse il grano dalla paglia che, trasportata ai margini dell’aia, andava a formare un cumulo a semicerchio, la cosiddetta margunata. Una successiva pulitura del grano, per separarlo dalla pagliuzza rimasta e dalle spighe non ancora sgusciate, si eseguiva spagliando con le pale di legno (paliari). La pula (bastardu), portata via dal vento, si accumulava formando un altro cumulo di dimensioni ridotte che prendeva il nome di margunatedda. Terminata a pisatina, il frumento veniva ammucchiato al centro dell’aia e si procedeva a togliere gli ultimi residui estranei (annittari) che comprendeva due setacciature: la prima con un crivello dalle maglie larghe (crivu ri ròcciulu) e la seconda con un crivello a maglie strette. Per quest’ultime vagliature venivano adoperati grandi setacci di diametro intorno al metro, appesi ad un treppiede in legno. Gli stessi, manovrati dall’operatore con grande perizia tramite un movimento complesso, sia circolare che oscillatorio, favorivano la caduta dei cascami. Il grano così pulito veniva misurato con il tumulo (tumminu) e si procedeva alla suddivisione, sotto l’occhio vigile del padrone o del soprastanti suo uomo di fiducia, qualora il contadino conduceva la tenuta in gabella, terratico o mezzadria. Il frumento, finalmente, veniva messo nei sacchi e trasportato a dorso dei muli nei granai. Naturalmente, veniva recuperata anche la paglia. Queste operazioni sopravvissero finché non si affermò definitivamente la meccanizzazione, prima con l’introduzione della trebbia, macchinario che separava il grano dalla paglia, che sollevava i contadini dalla pisatina. Dovevano trascorrere alcuni decenni affinché si introducessero dapprima la mietitrice, mezzo meccanico che aboliva l’utilizzo dell’antica falce e poi la mietitrebbia, mezzo davvero rivoluzionario che contemporaneamente falcia le messe, sgretola le spighe e consegna il grano pulito.


La molitura
Il grano portato a casa finalmente poteva essere trasformato in farina nei mulini ad acqua per la successiva produzione del pane per il consumo familiare. Fare il pane in casa e molto spesso la pasta era pratica naturale nei paesi dove si praticava la cerealicoltura proprio perché quasi tutte le famiglie producevano frumento. La case, pertanto, erano sempre dotate di un forno a legna. Per una famiglia di contadini non produrre il pane in casa era segno inequivocabile di estrema povertà. Prima della macina c’era un’operazione che solitamente era demandata alle donne e cioè quella di nettare il frumento manualmente (annittari) per togliere le ultime impurità: pietruzze e semi spuri. La macina era compito degli uomini che si recavano nei mulini ad acqua dislocati nei presso corsi torrenti a volte lontani alcune miglia dal paese. Il funzionamento di questi mulini si basava sullo sfruttamento dell’acqua come forza motrice. L’acqua prelevata alla fonte veniva accumulata in un contenitore; al momento della macina veniva immessa nella sàia, ovvero in un canale in muratura, mediante l’apertura di un congegno e da questo si introduceva nella botte di carico, la cui struttura alta circa 10 metri esternamente somigliava ad una torre. In fondo alla botte era posto il locale inferiore detto guarraffo dove era ubicata la cannedda, cioè un buco rettangolare da dove fuoriusciva l’acqua sotto pressione che veniva indirizzata verso le palette della ruota a raggiera. La forte pressione dell’acqua metteva in movimento le pale di una ruota posta orizzontalmente che attraverso un’asse verticale trasmetteva la rotazione alla macina del mulino posta nel piano superiore. Il frumento veniva versato nella tramoggia (tramoia) e macinato dallo sfregamento dovuto alla rotazione delle pietre di macina poste l’una sull’altra.


La panificazione
Il pane preparato in casa era ottenuto dalla semola del grano, lievitato con il lievito madre (a livitina o criscenza) ottenuto dal pane in pasta inacidito, che le donne conservavano ad ogni panificazione abitualmente in una tazza di terracotta nella quantità di circa 200 grammi. La genuinità di quegli ingredienti, unita all’abilità delle donne, davano al pane quella fragranza, quella bontà che oggi non è più possibile assaporare. La panificazione si ripeteva regolarmente almeno una volta la settimana, il sabato o il lunedì, e una maggiore frequenza interessava le famiglie più numerose; un forno a legna, generalmente, poteva contenere fino a dodici pani e per prepararne una quantità maggiore si ricorreva ad una seconda infornata con il forno che ormai aveva perso la temperatura ottimale e per questo motivo la crosta appariva più chiara (pani a strafurnu). La bontà del pane dipendeva dalla farina, derivata dall’ottima qualità del frumento, passato a vaglio nel “crivu ri sita” ma ciò non era sufficiente perché la buona riuscita dipendeva anche dalla bravura della massaia nell’impastare, nell’ispezionare la lievitazione, nel determinare la temperatura del forno e nel controllare la cottura. Le operazioni della panificazione avevano inizio ancor prima dell’alba con le massaie che indossavano il grembiule e legavano un fazzoletto in testa per contenere i capelli. Si procedeva a prendere la farina dai sacchi di olona o dall’apposito contenitore di legno (u farinaru) e a separarla dalla crusca con il crivello, crivu ri sita, e talvolta con un altro vaglio più sottile per ottenere il fior di farina. La farina setacciata, quindi, si metteva nella madia (maidda) e si formava una conca all’interno della quale si versava acqua tiepida, un pizzico di sale e si aggiungeva a livitina; giunto il momento di impastare ogni donna non dimenticava mai di fare il segno della croce. Poi si impastava e si caddiava a forza ri pusa o, per quantità rilevanti veniva impiegata la gramola o sbria, congegno solitamente usato dai panettieri e dai pastai composto da una stanga e un argano. Le massaie, quindi, cospargendo un po’ di farina su una spianatoia (scanaturi) iniziavano a ‘mpanari, ovvero formavano pagnotte che ricop rivano di sesamo (giuggiulena); le sistemavano, poi, su un’apposita tavola a riposare, operazione nota come «mettiri ‘u pani a lettu», e con il coltello su ogni pane segnavano una croce. Le pagnotte si coprivano con una o più coperte in modo tale da assicurare il calore necessario per una buona lievitazione. Durante questo processo il pane in pasta veniva controllato e alle massaie bastava uno sguardo per capire a che punto fosse la lievitazione che giungeva a compimento quando la pasta era rigonfia e sulla superficie cominciavano a comparire delle crepe. Le donne, per sicurezza, pungevano il pane con una forchetta e dalla consistenza capivano se era “maturo”. Intanto mentre era in corso il processo di lievitazione, si accendeva il forno e si procedeva a camiari ’u furnu, con tronchetti di legna od utilizzando tralci di vite (sarmenta), paglia di fave, venaccia (vinazzu), noccioli di olive (nòzzulu). La temperatura ottimale veniva raggiunta quando «‘u celu abbianchiaia», ovvero quando i mattoni della cupola diventavano bianchi. Il forno veniva ripulito con il rastrello (rastreddu) dal carbone e dalle ceneri e poi spazzolato con la tipica scopa di ampelodesmo o di foglie di palma nana (scupa ri ddisa o di curina). Giungeva quindi il momento di infornare il pane, lavoro che le massaie sbrigavano con una sapiente sveltezza e coordinazione: si ponevano le pagnotte sulla pala di legno e si introducevano nel forno. La cottura richiedeva circa un’ora e durante questo tempo andava controllato spesso; si sfornava quando la crosta appariva ben cotta. Si compiva con questa operazione il ciclo del grano: il pane, grazia di Dio, alimento fondamentale del regime nutrizionale era pronto per essere consumato.


La pasta
La pasta, altro alimento derivante dal grano, veniva prodotta in casa manualmente o con l’arbitrio, un torchio a vite con dei piattelli di rame diversamente forati che consentivano di avere una varietà di formati. La bontà era affidata alle massaie che impastavano la farina con l’acqua o con l’aggiunta di qualche uovo. Per ottenere un buon prodotto era molto importante la maestria della massaia; l’impasto veniva spianato sullo scanaturi con un mattarello e poi si tagliava per produrre tagghiarini o lasagni. Nel sistema di produzione della pasta con l’arbitrio non occorreva alcuna maestria per ottenere vari formati, ma il lavoro, seppure semplice, era alquanto faticoso. Consisteva nel mettere nel torchio l’impasto di farina lavorato a mano o con la gramola (sbria); messo in movimento con la forza delle braccia permetteva la produzione del formato di pasta secondo il piattello inserito alla sua base. Si ottenevano: italedda, filatu, maccarruna, maccarruna ri ziti, maccarrunedda, magghetti e infine, i virmiceddi che, così chiamati per la forma, erano i più comuni, tanto che i primi pastai presero il nome di vermicellai. La pasta prodotta si faceva asciugare su una tavola o a cavallo di una canna.