“LATIFONDO E CEREALICOLTURA NEL TERRITORIO DELL’EX STATO DI FITALIA” Comune di Campofelice di Fitalia, 2011

Da “Nuova Busambra” n. 5
di Nino Di Sclafani
Nella ricorrenza del bicentenario della fondazione il Comune di Campofelice di Fitalia ha dato alle stampe lo studio di Domenico Gambino “Latifondo e cerealicoltura nel territorio dell’ex stato di Fitalia”. L’opera ripercorre le tappe della storia del borgo, fondato nel 1811 dal Principe di Fitalia Girolamo Settimo Calvello e Naselli, intrecciando fatti storici, note economiche e personaggi, tutti intimamente legati alla vocazione agricola, ed in particolare, cerealicola, del territorio. Il volume è introdotto da un’appassionata prefazione di Giuseppe Oddo, che rievoca, a partire dal mito di Cerere, la simbologia, le narrazioni, le influenze religiose e mitologiche del millenario rapporto tra grano e civiltà. È innegabile, infatti, la relazione tra la nascita delle prime aggregazioni sociali stanziali, il superamento del nomadismo e l’evoluzione dell’agricoltura che determina l’insediamento dei popoli nei siti più adatti alla cerealicoltura. Tale tendenza non fu propria della preistoria, dell’alba della civiltà; dal XVI secolo in tutta la Sicilia nacquero nuovi centri abitati grazie all’iniziativa di famiglie nobiliari desiderose di affermare ed estendere i propri possedimenti, acquisire titoli per accrescere ilo proprio lignaggio e guadagnarsi posti di potere nella gestione politica del regno. Non ultimo, comunque, il fine di dare alla forza lavoro prossimità ai latifondi da bonificare e coltivare. Così in poco più di tre secoli, dal 1506 al 1861, il numero dei comuni siciliani passò da 158 a 358. Il feudo di Fitalia venne istituito da Ruggero I nel 1101 e donato a Goffredo Calvello avo del principe Girolamo fondatore della moderna Campofelice. Sin dalla sua istituzione il feudo era rinomato per le coltivazioni di cereali e dal XII secolo, fu sede di un casale o masseria centro di numerose attività funzionali alle colture del territorio. Gambino dipana le fila della storia del feudo che nei secoli antecedenti alla fondazione del centro abitato è prevalentemente storia agricola ed economica, scandita dall’alternarsi di arrendatari bramosi e nobili sempre più squattrinati. A dire il vero, verso la fine del cinquecento don Michele settimo Naselli ottenne dal re la “licentia populandi” finalizzata alla costruzione di un centro abitato ma la sua prematura morte e l’incuria dei successori non portarono al risultato sperato. Bisognerà attendere il 1811 quando, in forza di detta “licentia”, il principe Girolamo ottenne l’autorizzazione a fondare il nuovo paese a cui fu dato il nome di Campofelice. Le vicende del nuovo borgo si intersecano ben presto alla storia dell’isola. I campofelicesi furono protagonisti della principali tappe che videro il popolo siciliano accanirsi prima contro l’oppressione borbonica, partecipare con entusiasmo all’epopea garibaldina per poi giungere al disincanto postunitario con il tradimento di tutte le attese aspettative. L’autore espone con cura le premesse e le dinamiche che diedero vita alla nascita dei sodalizi che si sforzarono di unire quel proletariato contadino da sempre oggetto dello sfruttamento dei potenti. Di particolare interesse la nascita della Società Agricola Operaia Umberto I che evolverà poco tempo dopo nella locale sezione del Fascio dei Lavoratori. L’associazionismo contadino non venne meno con lo scioglimento dei Fasci. Sorsero, infatti, poco dopo, la Società Agricola di Mutuo Soccorso “Libertà e Lavoro2 e la lega Cooperativa Cattolica degli Agricoltori. Ambedue i sodalizi saranno protagonisti delle vicende politiche e sindacali nei primi decenni del novecento che videro le rivendicazioni dei contadini giungere all’occupazione delle terre. All’analisi storica, l’autore affianca, nell’ultima parte del volume, un pertinente approfondimento di carattere etnografico con la narrazione, arricchita da proverbi, canti e preghiere, del ciclo del grano con una completa ed interessante descrizione dei processi produttivi e degli utensili. A rendere pienamente esaustivo lo studio è l’elenco dei piatti tipici, completi di ricettario, della tradizione locale avente al centro, sempre, il grano ed i suoi derivati. Il principale merito del volume di Domenico Gambino risiede nella completezza con cui affronta le vicende della secolare storia di Campofelice prendendo spunto dall’intimo legame che rende inscindibile il dispiegarsi dei fatti narrati con la vocazione agricola che ha da sempre segnato i destini di quel territorio. L’approccio multidisciplinare consente altresì una buona godibilità del testo che, come detto, non si limita all’approfondimento storiografico.

LO STATO DI FITALIA, ULTIMA ROCCAFORTE DI CERERE
di Giuseppe Oddo
Fosse pure re dei distratti, il forestiero che visiti per la prima volta Campofelice di Fitalia, dovrà avere gli occhi foderati di prosciutto per non notare lungo il corso, sulla parete esterna del Municipio, la lapide che dall’agosto 2009 lega indissolubilmente il nome del comune all’antica (e pur sempre rifondata) tradizione cerealicola del territorio. Paese del grano, dunque, Campofelice di Fitalia. Così recita la lapide, che peraltro richiama l’atto fondante della nuova-vecchia marca di riconoscimento della comunità locale: la delibera consiliare n. 17 del 18 agosto 2009. Ma già alcuni lustri prima l’amministrazione del ridente paesino aveva scelto d’incorniciare lo stemma comunale (riproducente parte dello scudo della famiglia feudataria, sormontato da una torre) fra due mazzi di spighe, «per sintetizzare le origini contadine della popolazione del nostro paese e la particolare dedizione alla coltivazione del frumento»: parola di Domenico Gambino. Il quale ama ripetere, e non senza un pizzico di orgoglio d’appartenenza alla piccola comunità campofelicese, che tutta la cultura del luogo, materiale e spirituale, «fino a poco tempo addietro, era scandita dal ciclo annuale del grano». Forte di questa convinzione, l’instancabile studioso non ha esitato a sobbarcarsi a questa ennesima faticata per ricostruire a tutto tondo l’identità dell’ex Stato di Fitalia e della popolazione che vi si è insediata con l’intenzione di trasformarlo in un «immenso e felice campo di grano». Si obietterà che alla vigilia dell’abolizione del regime feudale, quando si cominciarono a costruire le prime case di Campofelice, la stragrande maggioranza del territorio dell’Isola era caratterizzata dalla cerealicoltura avvicendata al pascolo. Si sa – scriveva ancora nel 1876 il grande geografo francese Elisée Reclus – che la Sicilia fu in antico la predilezione di Cerere: è là, nella pianura di Catania, che la buona Dea insegnò agli uomini l’arte di arare il suolo, di spandervi i semi, di tagliare la messe. I siciliani non hanno dimenticato le lezioni di Demeter, poiché il suolo dell’isola per più che la metà è coltivato a cereali, ma convien dire che non han guari migliorato il sistema di coltura dalla Dea insegnato in epoche favolose. Ché, anzi, è loro presso a poco impossibile di far meglio che i loro antenati, poiché in virtù del loro contratto col nobile proprietario, erede del feudatario normanno, i coltivatori sono nell’obbligo di eseguire l’antica routine dei lavori. Quasi tutti i loro strumenti sono di forma primitiva, i concimi sono poco adoperati, e dopo che il seme è nella terra, il contadino lascia la cura del campo alla buona natura. Quando percorronsi le campagne della Sicilia, si resta attoniti dalla mancanza assoluta di case. Non v’han villaggi, ma solamente a grandi distanze le une dalle altre, delle città popolose. Tutti gli agricoltori sono dei contadini che rientrano ogni sera, al modo antico, nel recinto della città. Ve n’han di quelli che son costretti di fare quotidianamente un doppio tragitto di dieci chilometri e anche di più, per recarsi a vedere il loro campo e tornarsene a casa. Solo, talvolta, loro avviene di risparmiarsi la corsa del ritorno, passando la notte in qualche caverna, od in un fosso coperto di fronde. Durante la messe e le vendemmie, delle tettoie improvvisate servono ad ospitare i lavoratori. I vasti campi dei cereali che riempiono le valli e coprono le pendici vanno debitori a questa assenza d’abitazioni umane di un carattere speciale di tristezza e di solennità. Direbbesi una terra abbandonata e chiedesi per chi quelle spighe maturino. Ma quanta acqua è passata sotto i ponti dal 1876 ad oggi! Già negli anni sessanta del secolo scorso dalle campagne di Sicilia scomparivano, una dietro l’altra, le arcaiche tecniche produttive, collaudate nei tempi mitici di Cerere e del carro alato di Trittolemo. Oramai da diversi decenni, le aree destinate alla cerealicoltura avvicendata al pascolo costituiscono una sparuta minoranza dell’insieme della superficie agricola e forestale dell’Isola. Pochissimi siciliani sanno, anzi, dove maturano le spighe che consentono al popolo siciliano di mangiare pane e pasta in ogni giorno dell’anno. Nelle stesse contrade dove sopravvive la vocazione cerealicola, come a Campofelice di Fitalia, i fornai sono costretti ad impastare farina ricavata da frumenti seminati in Canada, negli Stati Uniti d’America, in Argentina e chissà in quale altra lontana landa del nostro pianeta. Anche per questo è meritevole di rispetto e attenzione il lavoro di Domenico Gambino. Ma resteremmo alla soglia di ogni compiuta valutazione se non cogliessimo il significato più profondo di una ricerca come questa, che racconta la cultura contadina «con i suoi linguaggi, rituali e ritmi di lavorazione […], tradizioni legate a riti religiosi, modi di dire e proverbi». A ben riflettere, si può affermare senza tema di smentite che, indipendentemente dal caso specifico qui raccontato, l’invenzione della cerealicoltura dà l’avvio alla più significativa mutazione antropologica mai vissuta dal genere umano. Segna il passaggio dalla vita nomade alla sedentaria e – perché no?! – l’aurora delle prime civiltà. Nel momento stesso che il primo uomo si rese conto che, seminando un po’ del grano che la Madre Terra gli aveva offerto spontaneamente, ne avrebbe potuto avere molto di più dopo alcuni mesi, nacque la cultura del progetto, che ha consentito all’umanità di moltiplicarsi e sopravvivere fino ai nostri giorni. Fu solo allora che si cominciarono a costruire i primi piccoli nuclei abitativi accentrati, che erano villaggetti ma anche città in miniatura, con spazi condivisi per i bisogni civili e religiosi delle comunità. Affondano le radici in quel lontano passato i saperi contadini e gli stili di vita urbani, che tanta parte hanno avuto in ogni epoca e in tutte le latitudini nella tormentata storia dell’uomo e del suo rapporto con le risorse naturali. A quella vicenda bisogna inoltre risalire per comprendere appieno le attuali articolazioni sociali e la stessa divisione internazionale del lavoro. Non è, infatti, azzardato affermare che, senza la rivoluzione agraria e l’inizio della coltivazione dei cereali, il Mediterraneo non sarebbe mai diventato oggetto di navigazione a distanza né, tanto meno, i popoli rivieraschi avrebbero fatto tutte le guerre che conosciamo per sopraffarsi a vicenda. Per farla breve, se è vero che i primi chicchi di grano affidati con trepidazione al grembo protettivo della terra sono stati il più grande investimento fatto dai nostri antichi progenitori, non si può ignorare che quel fatidico momento segna anche l’origine dei mali di cui tuttora soffre l’umanità. Ma quando si udirono i primi vagiti della coltura dei cereali? In proposito il mistero è ancora fitto. «La storia – osserva Hanri Fabre – celebra i campi di battaglia dove incontriamo la morte, ma sdegna di parlare dei campi arati dei quali viviamo; sa i nomi dei bastardi di re, ma non può dirci l’origine del grano. Queste sono le vie dell’umana pazzia». Il più documentato studioso della materia, Heinrich Edward Jacob, azzarda che il pane abbia seimila anni di storia Arnoldo Luraschi ritiene che il consumo dei cereali accompagna l’uomo da tempo immemorabile. Gli stessi Cinesi, a suo dire, «conoscevano il pane ventotto secoli prima dell’era cristiana e lo abbandonarono per il riso forse in seguito ad invasioni di popoli che lo consumavano in luogo del pane». Fernand Braudel ricorda che nel Mediterraneo l’alba della storia «coincide con l’invenzione dell’agricoltura, rivoluzione neolitica della quale abbiamo appreso da poco, grazie ai metodi di datazione al radiocarbonio, che risale al 9000 circa a. C.», e che la sua diffusione si è protratta per vari millenni. «Tale grande cesura della storia dell’umanità non si è dunque instaurata molto rapidamente. Il suo sviluppo, tuttavia, è avvenuto a partire da numerosi nuclei, più o meno collegati tra loro, e ha portato con sé i cereali – piante selvatiche sfruttate per molto tempo allo stato naturale, prima che a poco a poco si iniziasse la coltivazione –, gli alberi da frutto, gli strumenti e le abitudini sedentarie». E non manca di aggiungere, il compianto padre degli Annali di Parigi, che probabilmente i primi cereali furono addomesticati «sui rilievi che delimitano il deserto della Siria o negli altipiani montuosi dell’Anatolia e dell’Iran», nella regione nota come «Mezzaluna fertile». Ma, se rimane piuttosto vaga l’area dove furono selezionati i primi cereali, non c’è dubbio che dovunque sia arrivata la cerealicoltura, i governanti non hanno esitato a farne strumento di prestigio e di dominio politico, se non addirittura motivo fondante della loro identità, da contrapporre come marca di riconoscimento ai “barbari”, che non erano ancora approdati alla civiltà del pane. A tal proposito sono illuminanti le parole che Omero, o chiunque altro si celasse sotto questo nome, mette in bocca ad Ulisse per descrivere il ciclope Polifemo:

Era un mostro gigante, e non somigliava
a un uomo mangiatore di pane, ma un picco selvoso
d’eccelsi monti che appare isolato dagli altri.

Altrettanto certo è che il provvidenziale alimento è considerato sacro da tutte le religioni abbracciate dai popoli mediterranei. Né ci si può scandalizzare se in Sicilia (ma anche altrove) la sacralità del pane connoti l’ideologia popolare. «Il pane – ricorda Giuseppe Pitrè – è la grazia di Dio per eccellenza e non si posa né si presenta mai sottosopra, che è malaugurio, né si taglia da quel lato (solu), che è disprezzo alla Provvidenza di Dio che ce lo manda, né si segna o s’infilza col coltello, che è ferro e quindi maledetto; ma si taglia senz’altro, e quando si ha da infilare dentro il coltello si bacia prima, si benedice poi e si protesta che è grazia di Diu! Se mangiando ne cascano per terra delle briciole e non si ha cura di raccattarle, si dovranno poi raccattare con le ciglia, morti che saremo. E come grazia di Dio, si giura su di esso toccandolo: Pi sta santa grazia di Diu! E se ne vediamo cadere o buttare un bocconcino per terra, che non si voglia o non si possa altrimenti mangiare, ci affrettiamo a raccoglierlo e a conservarlo in un bucolino pur di non farlo calpestare coi piedi. il Signore potrebbe farci desiderare quel boccone di pane». Nulla di nuovo sotto il sole, però: nell’Isola il pane era considerato sacro già ai tempi degli dei falsi e bugiardi. Anzi, a detta di Plinio il Vecchio, «Cerere trovò il frumento. Mentre prima si viveva di ghiande. Lei stessa insegnò a macinare e a fare il pane in Attica e in Sicilia: per questo fu tenuta per dea». Ma è un fatto che colei che lo scienziato latino, autore dell’enciclopedica Naturalis Historia, chiamava Cerere era già conosciuta nel mondo ellenico come Demetra, dea delle messi e del pane. Il suo nome era peraltro legato a quello della figlia Persefone (o Kore), rapita da Ade, dio degli abissi. Il mitico ratto è raccontato nel V libro delle Metamorfosi da Ovidio, che (nella migliore tradizione della letteratura latina) chiama la madre Cerere, la figlia Proserpina e il dio rapitore Plutone. Catturata in riva al lago di Pergusa (Enna) mentre raccoglieva «bianchi gigli e viole», la fanciulla è trascinata a forza nelle profondità del Tartaro. La povera madre, ammantata di nero come la Madonna Addolorata, la cerca dappertutto, ma non riesce a sapere nulla dagli uomini che incontra. Per punire l’umanità, distrugge i campi di grano. Ma il frumento tornerà a crescere presto per l’intervento provvidenziale di Giove, per ordine del quale Persefone rimarrà per sei mesi negli abissi assieme al marito-rapitore e per il resto dell’anno farà compagnia alla madre su questa terra. L’avventura di Kore-Proserpina rimanda (come quella di tanti altri eroi mitici delle prime civiltà mediterranee) alla vicenda del seme che ogni anno muore per rinascere puntualmente a nuova vita salvando l’uomo dalla morte per fame. «Di questa concezione ciclica della vita – spiega Antonino Buttitta – il seme, e in tutte le società arcaiche il grano in semi, era sentito come una metafora visibile e concreta. Da un lato il suo aspetto inerte, la sua morte apparente, erano una denuncia drammatica della vita vegetale; dall’altra la potenza di vegetare racchiusa in essa lo identificava come fonte di vita. Era il territorio di nessuno nella zona di frontiera tra il vivere e il morire […]. Nel processo di riconduzione dall’invisibile al visibile, a un visibile tutto umano, l’identificazione di questo dramma in un dio antropomorficamente rappresentato è conseguenziale». Nel momento più critico della vicenda vegetativa, quando l’arco del tempo sembra chiudersi, «il dio creatore della vita e salvatore dalla morte, da Tammuz a Cristo, doveva morire per poi rinascere. La sua morte e riconversione erano, infatti, la riprova del suo potere di riconvertire la morte in vita». Una acquisizione culturale, questa, che è divenuta patrimonio condiviso dei seguaci di Gesù, sin dagli albori dell’era cristiana. «Se il granello di frumento, caduto in terra, non muore, rimane solo: se invece muore, produce molto frutto», si legge nel Vangelo di san Giovanni (Gv 12,24). E san Paolo gli fa eco (1 Cor, 15,35-38): «Ma qualcuno dirà: “Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?”. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo». Alla medesima concezione ciclica della vita, poggiante sul consumo del tempo e sulla sua periodica rifondazione rimanda il mito di Adone, che tutt’oggi caratterizza alcuni riti della liturgia cattolica. Cos’altro rappresenterebbero, infatti, se non gli antichi «giardini di Adone», i cosiddetti lavureddi (semi di grano germogliati al buio assieme ad altri cereali), che in Sicilia compaiono nei «sepolcri» allestiti dentro le chiese durante la settimana santa, ma anche il 19 marzo sulle tavolate di San Giuseppe, evocative del banchetto funebre in onore del padre putativo di Gesù? E non si dimentichi che gli stessi pallidi germogli di cereali compaiono il 24 giugno ad Alcara Li Fusi, in occasione della festa del Muzzuni, che allude alla rinascita della vita dopo la morte apparente della vegetazione, ma non senza aver prima celebrato la decapitazione di san Giovanni Battista, il precursore di Cristo, che gli abitanti di Alcara hanno elevato al rango di protettore delle fanciulle da marito. In ultima analisi, anche in questo caso risulta di tutta evidenza che, come in qualsiasi altra civiltà arcaica, l’esperienza agro-pastorale resta fondamentale nella strutturazione dei fatti religiosi, ma anche nella codificazione e celebrazione dei riti di passaggio (nascita, matrimonio, morte), studiati nei primi decenni del Novecento da Arnold Van Gennep. Ad essi la cultura contadina affida un’importanza decisiva per il superamento del caos in funzione di un preordinato ordine cosmico. Non si può dare quindi torto a Mircea Eliade, che nel suo celebre trattato di Storia delle religioni ha sottolineato la formidabile somiglianza fra il ciclo dei cereali «seme, pianta, nuovo seme», e quello della vita, che risorge dopo la morte. Il che trova preciso riscontro in tutte le culture religiose. Il cristianesimo, in particolare, ne ha fatto il cardine fondamentale, l’architrave del proprio calendario liturgico, fino al punto di contrapporre «al nutrimento materiale perituro un nutrimento misterioso che resta, il nutrimento che verrà dato al Figlio dell’Uomo», vale a dire «il pane di vita», l’ostia consacrata che si fa «corpo di Cristo» mediante il sacramento dell’Eucaristia. Ma, a prescindere da questa altissima valenza simbolica, il pane per Piero Camporesi «rappresenta l’allegoria della vita, della natura guidata e trasformata dalla penosa manualità». Tutto sarebbe cominciato (secondo il racconto biblico) dopo che Adamo ed Eva furono cacciati dal giardino dell’Eden, per aver disubbidito all’ordine divino di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane», tuonò il Padre Eterno all’indirizzo dell’uomo; «finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei ed in polvere ritornerai». Né questo è il solo accenno del Vecchio Testamento alla vicenda del provvidenziale alimento, che nutre l’uomo da diversi millenni. Al contrario, è pressoché impossibile ricostruire la fase iniziale del consumo dei cereali nei paesi mediterranei senza il supporto delle fonti bibliche. Da esse sappiamo per certo che i più antichi progenitori di Gesù erano nella stragrande maggioranza allevatori nomadi, che si nutrivano anche di granaglie, ma non certo di pane come Dio comanda: non avevano nemmeno il tempo di prepararlo, il pane, costretti com’erano ad inseguire l’erba per gli armenti nei grandi spazi delle praterie. I cerealicoltori erano pochi e questi stessi, ancora al tempo dei Giudici (1200-1025 a. C.), di solito consumavano grano abbrustolito. Se ne ha una conferma inequivocabile nella vicenda di Rut, la vedova maobita che fu ammessa a spigolare nel campo di Booz, suo futuro sposo. «Essa si pose a sedere accanto ai mietitori – si legge nel sacro testo (Rt 2,14) –. Booz le pose davanti grano abbrustolito; essa ne mangiò a sazietà e ne mise da parte gli avanzi» per farne omaggio alla suocera. Non è superfluo aggiungere che in molti comuni rurali della Sicilia tuttora gli anziani d’ambo i sessi sogliono raccogliere grossi mazzi di spighe non del tutto ingiallite per consumarne in famiglia i chicchi abbrustoliti (bruscareddu). La tradizione era, naturalmente, più diffusa fino agli anni ’50, quando la cultura contadina era più compatta e accompagnava l’individuo dalla culla alla bara, per orientarne (tramite i propri codici) le scelte in ogni fase dell’esistenza. La sopravvivenza fino ai nostri giorni di questa antica usanza la dice lunga sul peso che ha avuto la fame nella storia dell’umanità e sul ruolo dalle Sacre scritture nel conservarne e diffonderne la memoria. Comunque sia, il pane, o per meglio dire la focaccia di «fior di farina», era oggetto di consumo tra gli Ebrei fin dai tempi di Abramo (Gn 18,6). Ora, se per «fior di farina» intendiamo con Marisa Zanzucchi Castelli «pura farina di frumento (grano selvatico) pestato con cura tra due pietre, setacciato in un setaccio primitivo, fatto di fibra di palma e di budella di animali», si comprende benissimo che quella grazia di Dio somigliava solo vagamente al pane che si consuma in questo convulso inizio del terzo millennio, tanto più che le donne israelite «impastavano la pasta in una larga ciotola e la modellavano in forma di palla appiattita che veniva cotta sui fianchi di un forno di fango o argilla, a forma convessa, o direttamente sulla brace». Ma questo stesso lontano precursore del pane moderno cominciò a far parte dei consumi abituali del popolo eletto solo dopo che i primi figli d’Israele ebbero modo di accostarsi alle abitudini alimentari degli Egiziani. Le circostanze che portarono a questo risultato sono raccontate dall’Antico Testamento. Venduto dai fratelli, Giuseppe (figlio di Giacobbe detto anche Israele) fu portato in Egitto, dove entrò nelle grazie del faraone, che lo nominò governatore. Dall’alto della prestigiosa carica, questi ebbe gioco facile nel far trasferire i suoi familiari nella terra che lo ospitava. In occasione di un incontro con il faraone, costretti a dichiarare il loro mestiere, i suoi fratelli risposero imbarazzati (Gn 47, 3-12): «Pastori di greggi sono i tuoi servi, noi e i nostri padri». Aggiunsero: «Siamo venuti a soggiornare come forestieri nel paese perché non c’è pascolo per il gregge dei tuoi servi; infatti è grave la carestia nel paese di Canaan. E ora lascia che i tuoi servi risiedano nel paese di Gosen!». Detto, fatto. Giacobbe pose così fine ad un lunghissimo periodo di «vita errabonda». Giuseppe «fece risiedere suo padre e i suoi fratelli e diede loro una proprietà nel paese d’Egitto, nella parte migliore del paese, nel territorio di Ramses, come aveva comandato il faraone». Di più, «diede il sostentamento al padre, ai fratelli e a tutta la casa di suo padre, fornendo pane secondo il numero dei bambini». Fu così che i figli d’Israele cominciarono ad apprezzare il sapore di quella grazia di Dio, di cui da molti secoli si alimentavano i pelati sudditi del faraone. Continuarono a mangiare pane a sazietà persino durante la spaventosa carestia che si concluse, per volere dello stesso Giuseppe, con la nazionalizzazione del bestiame e di tutte le terre d’Egitto, tranne quelle della casta sacerdotale. Diversi Israeliti divennero agricoltori e cominciarono a coltivare i campi al costo di un canone annuo di appena il cinque per cento del prodotto. «Giuseppe poi morì – raccontano le sacre scritture (Es 1,6-7) e così tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. I figli d’Israele proliferarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno». La pacchia non fu eterna, per i figli d’Israele. Quando un altro faraone (forse Ramses II, vissuto tra il 1301 e il 1234 a. C.) prese le redini del regno, gli Israeliti furono ridotti in schiavitù. Saranno poi liberati, dopo 430 anni di permanenza in terra straniera, da Mosè, che (insieme a suo fratello Aronne) organizzò una fuga precipitosa verso la terra di Canaan, già promessa dal Signore ad Abramo. Consapevoli com’erano delle difficoltà cui sarebbero andati incontro nel deserto, i fuggiaschi si portarono dietro «la pasta prima che fosse lievitata, recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli». Durante la prima pausa (Es 12,39) non esitarono a cuocere «la pasta che avevano portato dall’Egitto in forma di focacce azzime; erano infatti stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio». Il resto della storia è, grazie a Dio, nota. Gli Israeliti vagarono quaranta lunghi anni nel deserto. E non senza affrontare guerre e disagi d’ogni sorta. Parecchi morirono durante il viaggio. Lo stesso Mosè cessò di vivere senza poter mettere piede nella terra di Canaan, che riuscì a vedere solo da lontano. I sopravvissuti non soffrirono la fame perché l’Onnipotente fece piovere la manna dal cielo, ma non senza aver messo prima a dura prova la loro fede. Non per nulla, ad un certo momento essi avevano cominciato a borbottare contro i capi (Es 16,2-3): «Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Nella terra promessa gli Israeliti arrivarono guidati da Giosuè. Si accamparono a Galgala, dove festeggiarono la Pasqua (Gs 5,10-12). «Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della regione, azzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. La manna cessò il giorno seguente, come essi ebbero mangiati i prodotti della terra e non ci fu più manna per gli Israeliti; in quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan». Frutti prodotti anche da molti ex pastori, che divennero contadini grazie alla legge di Mosè, che garantiva il possesso della terra a vita pagando solo il 10% del prodotto. Constaterà poi, il popolo eletto, che la terra promessa rassomigliava solo vagamente a quella descritta con fin troppa enfasi da Mosè (Dt 8,7-10): «Paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti ha dato». Ad una più cocente delusione sarebbero andati incontro, dopo più di due millenni, i coloni accorsi a Campofelice per popolare la terra promessa da don Girolamo Settimo Calvello e Naselli, principe di Fitalia. Ci arrivarono con la famiglia e qualche misera masserizia dai posti più disparati della Sicilia, convinti di poter fare fortuna nella nuova dimora offerta dal nobiluomo. La terra da dissodare non era poca, stando al vecchio adagio (noto in ogni angolo dell’Isola): Tri su’ li granni feudi di Sicilia: Alia, Fitalia e Cuntumelia. E non era mistero per nessuno che, per mancanza di braccia, una grossa fetta dei possedimenti di don Girolamo Settimo era da tempo immemorabile lasciata a pascolo e affittata ad allevatori di Mistretta, città del lontano Val Demone. L’intero Stato di Fitalia era anzi arrendato (affittato), dal 1807, al mistrettese Vincenzo Di Salvo che, pur essendo ricco sfondato, conduceva una vita da morto di fame nel vecchio casale dell’esteso feudo. Con uno come lui (che a differenza di tanti altri parvenu non aveva nessuna puzza al naso e faceva a meno del “don”) ci si poteva intendere e non era difficile strappargli il subaffitto con canone in natura (terraggio) di qualche altra salma di buona terra, oltre a quella avuta in enfiteusi perpetua, assieme alla casa d’abitazione, dall’eccellentissimo principe. Né avevano nulla da temere, gli intraprendenti coloni, dai capricci del mercato, posto che la lunga emergenza bellica aveva fatto balzare il prezzo del frumento dalle tre o quattro onze a salma degli ultimi anni del ‘700 alle dieci onze del 1811. Questo pensavano i poveracci che si erano illusi di poter migliorare sensibilmente la loro condizione trasferendosi nel nuovo villaggio fondato dal principe di Fitalia, grazie al denaro avuto in prestito dall’arrendatario. Ma, il pane dei poveri – ricorda Piero Camporesi –, quello «degli straccioni, dei disoccupati e specialmente di coloro che, vittime di una logica economica e sociale paradossale, lo producevano, i contadini, è un pane sempre in fuga, inafferrabile come un incubo al rallentatore, d’interminabile durata». Ebbene, già «nel 1821 la quasi totalità dei campofelicesi si ritrovò indebitata con il Di Salvo il quale aveva somministrato “soccorsi in denaro, in frumenti, ed altri generi per li borgesi ed inquilini nel territorio dell’ex Stato di Fitalia”. In definitiva egli doveva incassare complessivamente 4.082 onze. Una somma enorme […]». Spettanze da usura, s’intende. Né ottenne trattamento più favorevole l’eccellentissimo padrone, considerato che nel 1836 – quando quel mangiapane a tradimento di un ex vistiamaru (allevatore) del Val Demone passò da questo all’altro mondo – si scoprì che «nel giro di tre lustri aveva acquistato dal principe diversi ex feudi a cominciare dalle terre di Papeo nel 1819 e poi, a seguire, Incorvino e Centosalme nel 1822, Cozzo d’Agnello e Volparo nel 1827, una parte della Montagnola con la Petrosa sottana nel 1827 e, infine, la seconda quota della Montagnola, Carcilupo-Fondacazzo e le terre della Farra di Fitalia nel 1835. Complessivamente tale patrimonio ammontava a circa salme 1.450 della misura di canne 18 e palmi 2, corrispondenti a circa 3.235 ettari». Ma se più della metà delle terre dei Settimo finì nelle mani del Di Salvo, già dopo pochi anni di permanenza a Campofelice, alla stragrande maggioranza dei contadini che coltivano la terra «rimanevano la povertà e la lotta per la sopravvivenza». Tutto questo e molte altre cose ancora racconta con dovizia di documentazione (archivistica, bibliografica e iconografica) Domenico Gambino, che nondimeno nel capitolo dedicato alla cultura materiale – Dalla semina del grano al pane – non disdegna di attingere a man salva anche al sapere di quelle autentiche biblioteche viventi che sono gli ultimi portatori di folklore contadino. Nella seconda parte del lavoro, Il frumento nella cucina locale, l’autore fa tesoro di quei saperi al femminile tramandati da madre a figlia nel pittoresco paesino che si affaccia come nido d’aquila sulla Pianotta di Vicari. Descrive piatti che affondano le radici nella notte dei tempi, come il brusciareddu caliatu, la cuccia e il pani cunzatu che, se innaffiato da un buon bicchiere di vino, non rende solo omaggio al paesaggio agrario campofelicese: evoca la triade mediterranea – grano, olio e vino – che il mondo classico additava ai barbari come emblema di civiltà. Ripropone con encomiabile pignoleria ricette contadine come la pasta a milanisa, la pasta cu i favi e ricotta, la pastasciutta fritta, ma anche piatti e dolci della devozione cattolica come la pasta ri San Giuseppi, i cucciddata, i panuzza ri San Giuseppi, il pupu cu l’ovu e le mammelle, forse preparate a gloria di Sant’Agata, patrona di Catania. A far la parte del leone nel ricettario di Gambino è però, nemmeno a dirlo, il Patriarca San Giuseppe, patrono di Campofelice e dispensatore di grazia di Dio ai poveri. A sorpresa Gambino aggiunge al suo lavoro un ricco e ben documentato capitolo sulle lotte contadine. Ma la sorpresa è relativa ove si rifletta sulla vicenda sociale di Campofelice e sulla stessa storia universale, che fin dall’alba delle civiltà ha avuto come filo rosso l’accesso al consumo dei cereali e l’uso del grano come risorsa strategica. La stessa Rivoluzione francese ci ricorda da vicino questa verità. Non si dimentichi che nei mesi che precedettero la presa della Bastiglia, i popolani di Parigi avevano fatto proprio il saluto della jacquerie: le pain se lève. «Ma quale pane?», si chiedeva giustamente Jacob. «Non v’era pane, nel 1789. V’era soltanto la visione del pane». L’assalto alla Bastiglia il 14 luglio fu deciso perché si era sparsa la voce che dentro la famigerata fortezza si sarebbero trovate le prove di un improbabile «complotto del grano» orchestrato da ambienti vicini alla casa regnante. Ma tutto il periodo rivoluzionario è caratterizzato dall’assillo del pane. Nel 1793, su proposta di Danton si cominciò a fabbricare le pain d’egalité, pane integrale di pessima qualità da somministrare ai cittadini senza distinzione di sesso, età o condizione sociale. Fu istituita la tessera del pane e si autorizzarono distribuzioni gratuite del prezioso alimento, con il risultato di far salire alle stelle il prezzo del grano. E dato che il raccolto del 1794 fu disastroso, Saint-Just si fece autore della proposta che tutti i francesi abili fossero obbligati a lavorare nei campi. La trovata più sensazionale nel 1794 venne dagli uomini del terrore, che inscenarono una curiosa manifestazione, invero poco illuminata ed, anzi, evocativa per certi aspetti dell’immagine iconografica di sant’Isidoro Agricola, per altri di quella della Madonna delle Grazie, dietro la quale ammiccava sorniona Demetra-Cerere: «Robespierre, vestito d’azzurro, con un’espressione rigida e astratta sul volto, percorse lentamente a piedi, le vie di Parigi dietro una coppia di buoi “dedicata alla dea dell’agricoltura”. Recava in mano un mazzo di spighe di frumento e di papaveri; ma era ovvio che si trattava di un mazzo artificiale». Di lì a poco tempo le donne di Parigi trovarono il modo di scaricare la loro rabbia contro gli esponenti più in vista della rivoluzione. Aggredirono l’avvocato Boissy d’Anglas, ministro del grano che, per puro miracolo sfuggì al linciaggio. Uccisero un deputato e gli staccarono la testa con un coltello da cucina. E non avrebbero esitato a mandare al Creatore tutti i membri della Convenzione, se quei signori non si fossero barricati nella sede delle riunioni, in attesa che venisse a salvarli un reggimento di soldati. Ma la rivoluzione francese vinse e pose una pietra tombale sull’ancien régime. Il pane dell’uguaglianza si fece più gustoso in Francia e in tutti i paesi dove arrivarono le baionette e i codici napoleonici. Certo, le lotte contadine registrate a Campofelice di Fitalia nel sessantennio che ha come punti estremi la stagione dei Fasci siciliani e quella della riforma agraria (e il pur grave episodio di jacquerie di cui erano stati teatro il villaggio e il suo territorio nel settembre 1866) non sono minimante paragonabili alla rivoluzione transalpina. E non solo per l’evidente sproporzione dei due avvenimenti, e nemmeno perché il pur combattivo movimento contadino campofelicese non ha mai strappato conquiste durature (e la vicenda delle terre del Puzzo non è la sola a confermarlo). La differenza vera si può cogliere riflettendo sulla qualità del pane portato alla ribalta dai rivoluzionari d’oltralpe in rapporto a quella del pane nero e nauseabondo, «pane di masseria», neanche buono per i cani, di cui si nutrivano i contadini poveri di Campofelice, soci del Fascio dei lavoratori. Insomma, al pane dell’uguaglianza confezionato dai parigini in forma di baghette, ancora nell’autunno 1893 i campofelicesi potevano opporre quello della disuguaglianza, che gli agrari somministravano ai braccianti. Un campione di tale pane fu inviato a Bernardino Verro, e da questi a Rosario Garibaldi Bosco che, dopo averlo spezzettato, lo spedì a diversi giornali e a Napoleone Colajanni, per farne oggetto di denuncia parlamentare. Alla Camera il deputato di Castrogiovanni (amico dei più autorevoli capi dei Fasci) tenne a precisare: «Miserie, e grandi, non mancano tra i contadini, ma in generale essi mangiano del buon pane di frumento, che potrebbe essere invidiato dai lavoratori delle Calabrie e di alcune contrade del Veneto e della Lombardia». Ma è chiaro che, piuttosto che smentire la denunzia dei contadini, la precisazione attestava inequivocabilmente l’esistenza del pane della disuguaglianza anche a livello territoriale, oltre che sociale. Rimane tuttavia il fatto che in tutti questi anni la Sicilia cerealicola non è progredita con gli stessi ritmi delle regioni del Nord, dove le masse proletarie si nutrivano quasi esclusivamente di polenta. Bisogna allora riconoscere che se l’ex Stato di Fitalia rappresenta ancora una delle ultime roccaforti di Cerere (anche se i cerealicoltori si arrampicano sugli specchi per far quadrare i bilanci aziendali), una parte delle cause va ricercata nelle sconfitte subite dai contadini che, in netta contrapposizione con il blocco agrario-mafioso, avevano avviato la riconversione di buona parte del seminativo asciutto nelle più redditizie colture arboree. Non sono quindi poche le sollecitazioni offerte da Gambino ai lettori e, soprattutto, ai suoi concittadini, dei quali non è ancora stanco di raccontare vizi e virtù, con la speranza (poi non troppo velata) di vederli quanto prima proiettati in uno sforzo comune di progettazione dello sviluppo economico, sociale e civile del villaggio nativo.